A Vienna, è vigilia della nona finale di Coupe des clubs champions européens. Non manca quasi mai il Real Madrid, che ne ha già vinte cinque e persa una sola. Se la vedrà con l'XI più diabolico del momento, l'Inter del Mago, densa di fuoriclasse (giovani e in ascesa o già abbondantemente consacrati) ma detestata per il suo modo di giocare: difesa e contropiede, cinico pragmatismo o pragmatico cinismo. Herrera ha fatto tesoro delle sconfitte – più rumorose delle vittorie – incassate nel primo periodo milanese e in quello catalano ancora precedente. In Italia ci sono grandi squadre con cui misurarsi (il Milan del Paròn, naturalmente, ma anche la Juve di Sivori e il Bologna di Bernardini), e i nerazzurri vi stanno costruendo una solida egemonia.
Al Kahlenberg, grande albergo che sovrasta Vienna, i giocatori del Real si annoiano un po'. L'ultimo mese è stato per loro agonisticamente poco intenso: solo partite di Copa del Generalísimo, nelle quali Muñoz ha schierato sempre i rincalzi. Avrà ritenuto che per i due grandi assi, Puskás e Di Stéfano, fosse bene riposare un po'. Hanno la loro età; soprattutto il Grande Alfredo, che va per i trentotto. Nessuno probabilmente lo immagina, ma domani sera al Praterstadion giocherà la sua ultima partita ufficiale con la maglia dei Blancos.
Eccolo lì. Seduto in poltrona, chiacchiera con gli inviati di questo e di quel giornale. Non c'è nessuno al mondo che possa prevedere come andrà a finire la partita di domani, assicura. Lo circondano nugoli di ragazzini; quanti autografi, Alfredo, nella tua carriera? Beh, facciamo il conto. Diciamo duemila partite in venticinque anni, cinquecento firme per ogni incontro: fa un milione di autografi, un'inflazione. Ormai non valgono molto. Si torna a parlare della partita. Dice che sarà parecchio incerta. Possiamo vincere noi, può vincere l'Inter. Ma ciò non vorrà dire che il vincitore è più forte. Per affermarlo bisognerebbe disputare una decina di incontri, come fanno i tennisti professionisti. Valga l'esempio della finale di Bruxelles con il Milan nel '58, vinta ai tempi supplementari, tutti dissero che noi eravamo i più bravi. Non è vero: abbiamo soltanto avuto più fortuna. A proposito di supplementari, Alfredo: non vi spaventa l'ipotesi? Per via del fiato? No, noi vecchi, Puskás ed io, abbiamo forse un po' meno scatto dei ragazzi, ma siamo certamente più resistenti. Secondo me, le cose che contano in una partita come quella di domani sono tre: il pallone, il terreno e la capacità delle squadre. Arbitro e pubblico non contano. Per il pallone ci siamo messi d'accordo e siamo pari. Del terreno siamo tutti insoddisfatti: è una vergogna che si debba giocare una finale sul campo del Prater, avrebbero potuto scegliere Glasgow, Wembley o Bruxelles. Dell'illuminazione abbiamo sentito dire che è scarsa. E anche in questo siamo pari, perché i milanesi avranno difficoltà a correre e noi a far correre il pallone. Rimangono le squadre, la capacità fisica e di gioco. Qui vi sono le uniche lievi differenze, i milanesi un po' superiori fisicamente, noi forse un po' più omogenei nel gioco. Bene: parliamo di tattiche? Alfredo sorride. Non esistono tattiche. Chi è più forte attacca, chi è più debole si difende. Per quel che mi riguarda, sono disposto ad attaccare con dieci uomini, se necessario, e a difendermi con undici, se siamo in pericolo. L'unica tattica è quella che i giocatori sappiano al momento giusto quello che devono fare. Devono guardare il pallone e il compagno, non l'avversario o l'allenatore. L'allenatore? Sì, l'allenatore. Di Stéfano si alza e, tra la gioia dei fotografi, imita il comportamento di un giocatore in un campionato di un paese che non vuole nominare, ma che si può facilmente immaginare. Un occhio alla palla, una spinta e un robusto abbraccio all'avversario, poi gira la testa verso l'allenatore seduto in panchina. L'allenatore fa segno, con sette dita, che bisogna adottare la tattica numero sette. Mentre il giocatore conta le dita, arriva il pallone e gli passa accanto. Allora l'allenatore urla, il giocatore si precipita dietro la palla, spinge e abbraccia di nuovo l'avversario e libera. Di nuovo un'occhiata verso la panchina, l'allenatore fa un cenno di approvazione e mostra due dita: tattica numero due. In quel momento arriva un pallone e il giocatore che ha girato la testa di scatto fa un gol: senza volerlo. Questo è diventato il calcio. Se dovessi pagare di tasca mia un biglietto per una partita, ci rinuncerei. Voglio veder giocare, non veder gente che impedisce ad altri di giocare. Voglio godermi uno spettacolo, non rovinarmi il sistema nervoso per due punti o per una coppa. Come al cinema, sedermi comodamente in poltrona, con una sigaretta e vedere qualcosa di bello. Ci andrebbe lei al cinema a vedere Elizabeth Taylor, se sapesse che, in ogni momento, qualcuno gliela nasconderà?
La Saeta rubia giocò dunque la sua settima finale. Nelle prime cinque, tutte vinte, segnò sempre almeno un gol. Nella sesta, rimase all'asciutto e il Real perse. Nella settima, un mandrogno di nome Carlo Tagnin gli rimase addosso per novanta minuti, e lo nascose agli spettatori: “Lui faceva su e giù per il campo, dalla nostra aerea di rigore alla sua, per ricevere il pallone dal portiere e portarlo avanti; io lo seguivo come un'ombra. Me lo aveva detto il mago: vagli dietro anche se va al gabinetto”. Di Stefano, il grande Di Stefano, non ha quasi visto la palla nei primi 45 minuti. Tagnin, incollato alle sue famose caviglie, non ha dovuto faticare per tenerlo a bada (Rodolfo Pagnini, L'Unità). Proviamo a immaginarlo, deluso come lo vide un cronista catalano, a rimuginare sulla partita da solo en un obscuro rincón del vestuario. La partita, per lui, si poteva riassumere così: Nosotros hemos pagado el gasto y ellos se han zampado la cena.
Sì, il Real perse anche quella volta. Il tempo del Grande Alfrédo era ormai scaduto. Rimase fuori dalla formazione che, il 31 maggio e poi ancora il 3 giugno, contese inutilmente ai Colchoneros la qualificazione per la finale di Copa del Generalísimo. Tornò in campo a Rouen, il 10 giugno, in un'amichevole organizzata per inaugurare la nouvelle tribune présidentielle dello Stade Robert-Diochon. Quarantacinque minuti, ancora senza gol, e poi il silenzioso addio. Andò a Barcellona, e giocò per due anni nell'Español.
Quand'ero ancora bambino, il Real Madrid mandò via Alfredo Di Stéfano dopo una sconfitta nella finale della Coppa Europa contro l'Inter di Milano. Di Stéfano era così emblematico che inizialmente risultava inconcepibile la nostra squadra senza di lui, soprattutto se, come avvenne, non si ritirava ma continuava la sua attività: firmò con l'Español di Barcelona, dove militò per alcuni anni, e poi credo che passò all'Elche – un'assurdità, quella striscia verde. Ebbene, fu tale la mia indignazione e quella dei miei compagni merengues che decidemmo di passare al club barcelonese, o piuttosto di essere di Di Stéfano e non tanto del Madrid. Per alcune giornate seguimmo i risultati della sua nova squadra con attenzione, vedemmo che don Alfredo segnava doppiette di goal e la rabbia ci invadeva ancora di più. Fino a quando arrivò il confronto Madrid-Español, e allora le nostre scelte crollarono. Pure arrabbiati come eravamo con il Madrid, quel giorno non riuscimmo ad andare contro la nostra squadra né a favore dell'idolo ingiustamente espulso (Javier Marías, Selvaggi e sentimentali, pp. 78-79).
Fonti
- L'intervista a Di Stéfano è ripresa quasi testualmente da quella dettata a Stampa Sera (27 maggio 1964, p. 11) da Tito Sansa.
- Il racconto di Tagnin in Storie di Calcio
- Le interviste ai madridisti negli spogliatoi del Prater su Mundo Deportivo.
- Naturalmente, la finale del Prater.
Va aggiunto che vi è solo parziale riscontro all'ultima parte dei ricordi di Javier Marías. Infatti, il caso vuole che Di Stéfano giocasse con l'Español e contro il Real proprio nella prima giornata del Campeonato de Liga 1964-65, al Sarriá (13 settembre 1964). I Blancos vinsero due a uno, in rimonta, con doppietta di Puskás. Nella gara di ritorno (3 gennaio 1965), al Bernabéu, Di Stéfano non scese in campo.